sabato 21 febbraio 2015

"Gli sdraiati" di Michele Serra

“L’uomo da qualche tempo sperimenta la sua incapacità di stabilire nessi con i ragazzi. Non sa se questo muro invisibile sia la semplice riedizione dell’eterno conflitto tra genitori e figli, tra adulti e ragazzi. Oppure se qualcosa di inedito, di sconosciuto, di mutageno stia separando per sempre i pensieri e gli atti delle ultime leve dell’umanità da tutto ciò che li ha preceduti”.
Si interroga un padre sul rapporto, in apparenza, mancato col figlio. Straniti dalle abitudini diverse, dalle forme di comunicazione che spesso non contemplano nemmeno la parola o qualsivoglia relazione fisica, da un narcisismo imperante, dalla dislessia dei sentimenti che isolano, annullano l’uomo, in un’apocalittica quanto visionaria guerra futurista i padri -gli anziani- sedimentano mancanze e differenze verso i figli -i giovani- alzando un muro di incomprensioni. Salvo scoprirsi tutti parimenti fallaci, bisognosi l’uno dell’altro, semplicemente diversi e complici in un confronto che rivelerà la bellezza di una natura appassionata, capace di evidenziare sì l’assenza di conflitti ideologici, generazionali su cui confrontarsi e se mai scontrarsi, ma anche superare il disorientamento dell’anonimato dei giovani ‘sdraiati’ -non solo figuratamente- sulle abitudini dei loro riti, rinsecchiti nel loro sistematico ritirarsi dal mondo, apatici, assonnati. Ma è davvero poi così? Cosa si aspetta il genitore, punzecchiando, ironizzando, provocando, corrompendo, incuriosendo per coinvolgere il figlio a condividere l’esperienza del viaggio: una breve escursione in montagna. Non sarà forse.. cercare risposte all'interrogativo comune a tutti i genitori: sarò stato capace di educare? Di fare bene?

Forse sì, se lo sdraiato di turno non solo ha lasciato il divano di casa, ma con il suo improbabile equipaggiamento ha scalato la montagna, si è riempito gli occhi di colori veri, e s’è lasciato alle spalle il padre. Un passo avanti, sempre. Emozionandosi.

"L'ignoranza delle persone colti" di William Hazlitt

“Le parole sono l’unica cosa che rimane per sempre”.
Opportuna la considerazione di William Hazlitt, tra i più profondi saggisti inglesi attivo tra la fine del ‘700 e i primi decenni dell’800, di cui finalmente il lettore moderno può apprezzare una parte dei saggi pubblicati sul London Time nel 1820.
Arguto, ironico, pungente, incisivo il pensiero di Hazlitt spazia su diversi temi: dalla paura della morte – deliziose le pagine sul fare testamento con episodi tanto improbabili quanto veri – alla critica delle istituzioni culturali, politiche, sociali: “Tutti quelli che si agitano, strisciano e pregano per ottenere un posto, vivono poi sugli attestati di merito fino alla vecchiaia, dopo la quale è raro che se ne senta più parlare. Se capita fra di loro un uomo veramente capace, che sceglie la sua strada non conta niente”; dall’ignoranza delle persone colte che “conosce le cose di cui parla come un cieco i colori” agli svantaggi della superiorità intellettuale dacché “il principale svantaggio di sapere di più e di vedere più lontano degli altri in genere è di non essere compreso”.
Paradossale, irriverente, beffardo, passionale nel tenere la posizione su giudizi controcorrenti, curioso, istrionico nel destreggiarsi tra citazioni e rimandi colti, W. Hazlitt risulta di un’attualità sconcertante e di facile immedesimazione per il lettore.
“Tutto ciò che ti riempie di gioia e di diletto sfugge agli occhi della gente”.

sabato 7 febbraio 2015

"Lisario o il piacere infinito delle donne" di Antonella Cilento

Ci sono storie che hanno la forza, l’audacia, lo stupore di un tempo perduto, e che parola dopo parola, lentamente, riservano piacere, sorpresa, coinvolgimento. Ci sono storie ammantate di mistero, che parlano di vite vissute con passione e determinazione. Raccontano di uomini e donne che hanno sfidato i pregiudizi e i divieti del tempo, infranto tabù, affrontato mille peripezie, combattuto battaglie di sangue e valori, per conquistare la possibilità di essere felici, esprimere la propria individualità, la propria personalità.
La storia di Lisario è tutto questo e di più.
Metà del XVII secolo. Napoli. Lisario Morales, voce costretta al silenzio dalla mano incapace di un chirurgo, cade addormentata per sfuggire ad un matrimonio imposto. Sin da piccola, irrevocabile e indomita, si è creata un angolo di mondo dove leggere e scrivere e riscattare la sua libertà. A risvegliarla dal sonno forzato e rompere l’incantesimo un medico spagnolo in cerca di fortuna in quel di Napoli, Avicente Iguelmano, così sfrontato da rubare il candore di vergine di Lisario tra le coltri del letto paterno e averla in moglie per riconoscenza, salvo soccombere al suo fascino misterioso e al suo desiderio sensuale di darsi piacere da sola, un piacere proibito, insolito, impossibile a dirsi, qualcosa che sfugge al potere dell’uomo, e alla ragione. E per Avicente il bisogno di capire sfocia in ossessione e in folle gelosia quando scoprirà il diario segreto di Lisario e il suo amore per un pittore francese, Jacques Colmar da cui la donna aspetta un figlio.
Amanti a dispetto della logica, della religione, della società Lisario e Jacques sono capaci di riconoscersi in mezzo alla folla di una città scossa dalla rivolta di Masaniello, di appartenersi in un tempo rotto dagli intrighi di corte e dal commercio di anime, di sfuggire all’odio di uomini inaciditi dalla vendetta e resistere, resistere a tutto, finanche all’orrore più agghiacciante, saper perso l’uno, l’altro.
Il corpo segnato dalla mano assassina del marito, il cuore spento dall’amore perduto, negli occhi lo sguardo d’odio di Michael de Sweerts, pittore olandese innamorato respinto da Jacques, al seno la piccola Teodora, Lisario non può che ripiombare nel sonno per salvarsi, emendare la colpa di aver voluto essere felice, libera, donna.
Non più corpo da nascondere ma esposta in pubblico come una santa, Lisario verrà allontanata da Napoli e abbandonata al destino delle acque in un viaggio funesto che la risveglierà costringendola a salvarsi al comando di una nave fantasma, fino all’approdo inatteso in un’isola che le restituirà l’amore perduto, e la felicità.
Tornerà Lisario, tornerà la sua voce a scuotere Napoli, tornerà ad accendere il cuore di Avicente per un’ultima volta, sfidando la città intera, torneranno i suoi occhi a scrutare i cuori degli uomini che ha amato e l’hanno amata, torneranno a rivendicare il piacere proibito delle donne, tornerà e avrà il volto e la voce di Teodora, e di tutte le donne che verranno dopo a reclamare libertà, felicità, vita.
“Il nome dell’amato è una preghiera”.
Volti, voci, microstorie e macrostorie; personaggi capaci di accendere il cuore; colori, odori, sapori di una città che incanta e fa paura al tempo stesso; sacro e profano, ragione e religione, ricchezza e povertà, amore e piacere; peccato e preghiera; viaggi, arrivi, partenze; odi, vendette, rivalse; arte, genio, sregolatezza; scienza e ricerca, filosofia e sacrificio. E poi e ancora Napoli e la sua gente, come la Pullecenella che fa il suo spettacolo al capezzale di Lisario venerata come una santa: “Uommene fèmmene ascutate: che la rivoluzione s’adda fare, ma maie se faciarrà si lo munno nun s’accapovolge”.
In un mondo vietato alle donne, la storia di Lisario è la dolorosa avventura di un’anima decisa a reclamare il suo bisogno d’amore.

La scrittura lucida ed elegante della Cilento conquista pagina dopo pagina in una narrazione che bagna le parole nel catino della storia, e tinteggia con i colori dei grandi scrittori come Cervantes regalando emozioni sino all’ultima pagina.