domenica 26 maggio 2013

"L'ho uccisa perché l'amavo" di Loredana Lipperini e Michela Murgia

"Ma l'idea che le donne siano responsabili dell'aumento della sofferenza del mondo esattamente perchè cercano di sottrarsi alla propria è un pensiero portatore di un'ingiustizia non misurabile".
Due autrici italiane raccontano il femminicidio. Quel che è nella realtà e quel che, spesso, con approssimazione viene riportato dai media. Banalizzazioni, giustificazioni, analisi incongrue. Tutto per minimizzare, per disconoscere il problema, convincersi che non esiste.
Ma le donne vengono ammazzate. E questo è un fatto incontrovertibile.
Accade sempre più di frequente negli ultimi anni. Negli ultimi mesi. Giorni.
Con una facilità che disvela l'abiezione del male. 
E il male passa per le mani.
Le mani. Quelle di un uomo che ama accarezzano il volto della donna amata. Quelle di un uomo che odia si stringono al collo della propria compagna per vederla morire, istante doopo istante con lucida partecipazione. Le stesse che le punteranno contro un'arma. Che la bagneranno di benzina un attimo prima di darle fuoco. Le stesse che la picchieranno fino a renderla irriconoscibile, un fantoccio inanimato.
Mani ridotte ad armi.
Non parlate di amore, suggeriscono le due autrici. L'amore salva non uccide.
Non prestatevi a trasformare le vittime in carnefici, ma cercate di capire. Essere informati, conoscere, apprendere i segnali di malessere in chi ci è accanto e alle nostre domande abbassa lo sguardo è il primo passo per aiutare, combattere, salvare. Piegarsi al silenzio, ignorare, voltare il capo dall'altra parte perpetua il femminicidio, rende complici.

sabato 25 maggio 2013

"Mandami tanta vita" di Paolo Di Paolo

"Che cosa si guadagna crescendo? Dove non avresti immaginato conflitti, è proprio là che esplodono, con una violenza che può lasciarti stordito. Non c'è quasi più niente che somigli a un dono. Tutto ha l'aria di una promessa non mantenuta"
Così si sente Moraldo in quel di Torino nell'inverno del 1926.
In fuga dalla provincia, dal padre piccolo commerciante, dai sogni di diventar qualcuno, scrivere, stampare, dire cose piene di senso che tutti ammirano, un pò come capita a quel giovane visto in facoltà, pallido, occhialini tondi da miope, sfuggente, che lui trovava d'istinto antipatico forse perchè non ha risposto alle sue lettere, quel Piero Gobetti ora in fuga dalla città, deciso ad "essere se stesso, dappertutto", deciso a dare spazio alle idee, a raccontare il suo tempo, attarversarlo con consapevolezza, ardore, desiderio di libertà, a qualsiasi costo. Del resto "come si può tornare indietro? Come si può accettare di tacere? Una volta che la sfida è aperta, occorre condurla fino in fondo con intransigenza. Non si torna indietro dalle parole dette, non si recede dalle convinzioni".
E così dalle albe trascorse a leggere Kant per strada con i compagni di studi ad una soffita di Parigi, il cuore gonfio di dolore per l'adorata moglie Ada e il piccolo Paolo lasciati a Torino, a sentirsi giovani, nonostante tutto.. perchè "l'esilio è anche questo; la barba, il freddo, una stanza piccola e sporca". Così, "un pò Mazzini, un pò Charlot, disorientato e stanco" e poi d'improvviso l'ansia di scuotersi, reagire, studiare, riprendere i contatti con gli esuli, cominciare a coordinare il ritorno alla stampa del giornale, nuove firme contro il regime fascista che si è imposto in patria, la violenza degli squadristi che tacita ogni voce sospetta e calpesta l'uomo, la sua dignità. Era capitato anche a lui di esser minacciato, picchiato, forse era cominciato lì il suo malessere, quella spossatezza che non l'aveva più abbandonato.
"Mandami tanta vita" scrive da Parigi alla moglie.
Vita che lo stesso Moraldo sogna di afferrare, cominciare, per forzare quelle promesse di gioventù e concretizzarle. Sembra che accada quando complice lo scambio di una valigia in stazione incontra una giovane e disinvolta fotografa, Carlotta, di cui si innamora, crede, ricambiato. La seguirà a Parigi e lì il disincanto.. "al suo fianco ho sempre l'impressione di perdere consistenza, di ridurre il proprio spazio fino quasi a scomparire" eppure sarà proprio a Parigi che ad una panchina in un parco Moraldo ritroverà Gobetti. Un momento, l'ennesima occasione mancata di parlargli, di presentarsi, raccontarsi.
Lo farà, quando di lui solo poche ore dopo leggerà su un giornale che "è mancato", e allora Moraldo comincerà a vivere davvero la sua età. 
Ora lo sa. "La volontà è tutto. Le cose che vuoi accadono".

Un romanzo di fulgida bellezza quello di Paolo Di Paolo. Ha la forza di rapire il lettore sin dalla prima battuta.
Una narrazione che pesa ogni espressione verbale, evocativo, perfettamente calato nel tempo, attento e misurato nel giudizio storico. Avvicina alla figura di Piero Gobetti e per tramite del protagonista Moraldo, impacciato come tanti suoi coetanei, racconta il tormento di una generazione. Sfiora la fascinazione del male, nelle parole di Amadeo e del racconto della spedizione punitiva di un gruppo si fascisti, e conquista con la certezza di quelle parole gridate al vento "le idee, almeno le idee, ci sopravvivono?".
Sì, la risposta, la prova è nell'esempio di chi come Gobetti si è fatto senza eroismi espliciti 'lupo selvatico all'addiaccio'. "Il resto del branco ha trovato riparo, ti chiama, ti guarda come il figlio sbagliato, come il pazzo temerario. Tu resti là, non ti muovi, tremi, ma resti; impassibile come una polena contro il mare in burrasca. Quando la violenza della tempesta si sarà placata, rientrerai nella tana. Non capiranno. Non ha importanza".
Ma ha importanza questo libro, la sua lettura, una certa sua poesia e il ricordo di un italiano straordinario come pochi: Piero Gobetti.



domenica 19 maggio 2013

"Il giardino delle pesche e delle rose" di Joanne Harris

"Ho visto il sole alzarsi sopra montagne dove nessun essere umano si è mai avventurato e calare sopra città dove ogni centimetro di spazio è pieno di persone che si spingono e lottano una con l'altra per la vita. Ho partorito. Sono stata innamorata. Sono cambiata oltre ogni aspettativa. Ho visto persone morire nei vicoli, altre sopravvivere in circostanze impossibili, conosciuto la felicità, il buio e il dolore, e l'unica cosa di cui sono ancora sicura è che la vita è un mistero; la vita è cambiamento, è quello che mia madre chiamava magia ed è capace di qualsiasi cosa.."
..come tornare a Lansquenet dopo otto anni, sentirsi reclamata dalle voci del passato, da un vento caldo che porta lungo la Tannes, lì dove qualcosa, qualcuno sembra aver bisogno di lei.
Sì, Vianne Rocher è tornata.
La sua cioccolateria a pochi passi dalla chiesa adesso è un involucro vuoto. Qualcuno ha appiccato un incendio per scacciare la donna che l'abitava. Sembra che nulla sia cambiato. Una donna e una bambina. proprio come un tempo lei e la piccola Anouk, osteggiate, additate, perchè diverse.
La colpa? Forse essere musulmane. Corpo interamente velato, ritrosia al limite del fastidio, silenzio.
Ma era davvero tutto lì? Possibile che il pregiudizio potesse minare la convivenza pacifica di una piccola comunità? Ancora..?
Perché gli stranieri erano arrivati nel tempo, le vie lungo il fiume si erano riempite di odori, colori, umori diversi, c'era stato reciproco intendimento, curiosità e rispetto. Poi qualcosa era cambiato, i bambini avevano smesso di giocare insieme per strada, le donne giravano velate e il richiamo del muezzin sembrava sfidare le campane della chiesa. E poi lei, la donna che insegnava alle bambine, che aveva abitato quel che un tempo era stato l'antro magico di Vianne, e tutto era precipitato.
Sospetto, rancore, odio serpeggiava nel paese.. e il sobillatore sembrava essere il curato, quel Francis Reynaud un tempo nemico giurato di Vianne.
Ma nulla è davvero come appare. Vero e verosimile si confondono. E a dispetto dei delatori, dei pavidi, degli opportunisti la risposta all'agire dell'uomo contro il proprio simile si cela spesso nell'incapacità di relazionarsi all'altro se non con il sospetto che lo stesso voglia sopraffarci. Quando non è proprio il male a corrompere l'anima e allora "c'è un limite a quello che può fare la buona volontà. Certe cose, certe persone non si possono salvare. Possiamo solo essere così come siamo fatti, non come gli altri si aspettano, o sperano..."
Se il curato si interroga sul fallimento del suo mandato, "condannato dal tribunale dell'opinione pubblica", Vianne farà di più per scagionarlo dalle accuse. Si abbandonerà all'Autan, il vento caldo, e lascerà che la magia delle parole e del cioccolato -"offrire cibo significa tendere la mano dell'amicizia, accettarlo significa essere accettati anche nella comunità più chiusa"- le lascino conquistare la fiducia della gente, perché solo la fiducia può vincere il sospetto, solo la conoscenza può vincere il pregiudizio, solo l'amore e il sacrifcio che ne viene può salvare l'oggetto amato. A qualsiasi costo.
Tra vecchie e nuove amicizie, certezze e nuovi dolorosi dubbi -"voglio conoscere la cosa che nasconde o dovrei per la mia pace mentale lasciare che il passato rimanga sepolto?"- Vianne tornerà ad abitare Lansquenet e i cuori della sua gente.

Un romanzo avvincente, seducente, emozionante quello della Harris come Vianne e la suo colorata brigata di amori, figli, nemici, amici veri e immaginari e ricette golose.

sabato 18 maggio 2013

"E poi, Paulette..." di Barbara Constantine

"Era semplicemente triste avere sprecato tutto quel tempo. Per lui, Ferdinand, rendersi conto solo adesso che suo figlio non era soltanto un cretino. E per Roland, che suo padre non era un vecchio fesso".
Tutt'altro.
Ferdinand e.. il piccolo paese di provincia francese dove tutto sembra fermo, dove tutto appare come un rituale dolce e un po' stantio.
Ferdinand... e la grande fattoria in campagna abbandonata.
Ferdinand... e gli amatissimi nipotini Ludo e Petit Lu.
Ferdinand... e il vecchio cane della vicina: la buona Marceline.
Un incontro che segna un nuovo inizio, una scossa che lo riporta nel mondo dei vivi, delle emozioni, delle speranze, delle attese di giorno in giorno trasformate in certezze, possibilità. Perché Ferdinand si guarderà intorno, a partire da quella vicina che abita una casa fatiscente e che dietro ad un sorriso triste nasconde un doloroso segreto. Ferdinand le aprirà la sua casa e il suo cuore. La mano tesa di chi può aiutare senza aspettarsi nulla in cambio.
Sarà poi la volta dell'amico di una vita: Guy, solo e sperduto dopo l'improvvisa morte della moglie Gaby. Lui insonne e laborioso meccanico di biciclette inizierà a coordinare i nuovi bisogni della casa inventandosi nomi e piani di lavoro ardimentosi e fantasiosi.
E ancora le vecchie sorelle Lumière, Simone e Hortense, intrepidi e improbabili tuttofare bisognose di cure e attenzioni. Da qui l'arrivo della giovane aspirante infermiera Muriel, dolce e protettiva con le sue pazienti, sempre di corsa tra lezioni e lavori extra e di Kim, studente in agraria, che aiuterà a coltivare i campi e a rivoluzionare la casa.
Una stramba comune di uomini e donne di età diverse ognuno disposto a mettere se stesso e le proprie capacità a servizio degli altri, che sia un sorriso, un sostegno morale o materiale, un tetto sotto cui ripararsi, la possibilità di ripartire.
La fattoria di Ferdinand tornata ad essere abitata si riempie di emozioni. Esempio della possibilità che alberga in ognuno di noi di essere portatore sano di speranza, laborioso costruttore di buone pratiche.
La fiducia può vincere l'egoismo, la paura, i pregiudizi, la diffidenza.
E un vecchio solitario può trasformarsi in un dispensatore di nuova vita perché in fondo non c'è richiesto che di alzare gli occhi e guardare il nostro vicino, tendergli la mano, e ritrovare nei suoi occhi quello che noi abbiamo dimenticato di essere: umani. Rispondere alla nostra coscienza per ritrovarla.
Una favola moderna quella della Constantine, una prosa leggera e briosa che riempie il cuore.
E poi.. poi Paulette. 
La nuova vita, la luce, la speranza, l'amore che tutto può, tutto vince.

sabato 11 maggio 2013

"Maltempo" di Mariolina Venezia

"Perché a parlare dei massimi sistemi sono buoni tutti, ma quando c'è da rimetterci, anche poco, chi muove un dito contro il proprio interesse?"
Se lo chiede il pubblico ministero Imma Tataranni in quel di Matera.
Fisico piccolo e nervoso, seno generoso, sorriso tirato da iena ridens per i suoi detrattori, tanti, troppi in procura. Difficile starle dietro, intemperante e integerrima.
Se lo chiede al cospetto del cadavere di una giovane ragazza, Donata Miulli, rinvenuta nella scarpata di un piccolo paese. La stessa che qualche giorno prima le aveva scritto e poi cercata in ufficio, seguita per strada per raccontarle di uno scandalo che avrebbe coinvolto un uomo politico in corsa per la presidenza della regione, l'on.Martelli, e tanti notabili del posto, quei basilischi rei di accordi con i petrolieri che da tempo depredavano e abusavano della loro terra.
Perchè non aveva voluto credere a Donata? Perchè era stato più semplice tacciarla di protagonismo e non ascoltarla davvero? Perchè era giovane e bella? Perchè si era presentata come l'amante dell'onorevole? Perchè sembrava una ragazza determinata? O perchè la costringeva a confrontarsi ancora con i poteri forti?
Donata.. né l'intelligenza né la bellezza erano bastate a darle un'opportunità. Donata che si era innamorata forse dell'uomo sbagliato e che a dispetto dei viaggi e delle delusioni, dei no profusi senza ritegno, di impegno calpestato e compromessi negati, non aveva smesso di credere nei suoi sogni ed era tornata a casa, dalla sua famiglia, nella terra amata, perché "andarsene non è un privilegio come ci volevano far credere. E' una fregatura".
Cosa aveva scoperto Donata? Cosa c'era di vero nelle sue denunce? 
"Sono in ballo le concessioni dei petroli..." ricorda le sue parole Imma.
E ancora, perché qualcuno dice di averla vista in giro alcune ore dopo la sua morte? Che il suo fantasma, come credono certe masciare della zona, vaghi tra i calanchi in cerca di giustizia?
Le indagini, condotte come sempre in prima persona, tra una Roma romantica e caotica e i piccoli paesi sperduti nel nulla della Basilicata, sembrano girare a vuoto: troppe voci, coincidenze, accuse. Tutti attendono il passo falso della Tataranni eppure: "per esperienza, quando i fatti non quadravano, spesso la soluzione era in uno sguardo, in un sentimento più o meno irrazionale, in una modalità di pensiero. La variabile umana, in poche parole".
Uno sguardo, alcune parole.. "l'essenziale è invisibile agli occhi" o forse no. E allora un fantasma può raccontare l'odio di chi non può accettare la sconfitta, di chi è pronto a tutto, anche ad uccidere per non ammettere di aver sbagliato e ricominciare.. "e allora le cose, da male.. iniziarono ad andare peggio".

Paesaggi mozzafiato di una terra aspra e vera, un sentire comune di corpi e menti temprate dalla fatica fuse in una narrazione tagliente, autentica, ironica. Un personaggio, quello della Tataranni di diabolica affezione per il lettore, così ben caratterizzato da percepirlo come reale. Una storia di potenziale, drammatica, verità.

martedì 7 maggio 2013

"Il tempo è un dio breve" di Mariapia Veladiano

Il tempo è un dio breve racconta di Ildegarda, teologa, giornalista, prima di tutto una donna capace di amare, dove amore sta per gioia intensa e pari sacrificio. Una donna tormentata dal suo giudicarsi impietosamente, con un forte senso di responsabilità, decisa a interrogarsi mille e più volte sul significato della vita, sul dolore che ghermisce gli innocenti, sull'incapacità stessa di quanti non hanno il cuore abitato da amore, grazia, perdono e che forse più di altri necessitano di attenzioni e comprensione, e ancora della compassione che merita un dio impotente al cospetto dei mali del mondo.
Ildegarda, figlia tardiva di una coppia di gente umile e laboriosa, riflette su chi ha intorno uno stoico senso di radicamento, adattamento; accetta l'abbandono del marito Pierre - preso dal suo "immane tentativo di tenere a bada il mondo, di non sentire le emozioni, di non sentire.."- si abbarbica alla vita del figlio Tommaso e quando con fatica, stordimento, momenti di puro sconforto sarà sul punto di tradire il suo essere rifiutando la vita stessa, la vita le porterà accanto un'altra anima dolente, un sopravvissuto degli affetti, Dieter, un pastore luterano che le insegnerà ad accettare il dono dell'amore: "la nostra era stata una seconda nascita, arrivata mentre eravamo nella disperazione e niente più riuscivamo ad immaginare davanti a noi (...) tutto quanto ci dà felicità viene da Dio e avere paura della felicità è il più subdolo dei peccati poiché dietro un'apparenza di umiltà riveliamo una riserva radicale nei confronti di Dio, mostriamo che non sappiamo credere che ci ama sempre per primo, che la felicità è nelle sue mani e che ce la regala senza applicare una contabilità sui meriti e le colpe".
Colpe.. Ildegarda sente di averne ancora quando Tommaso si ammalerà rivelando la fragilità della vita, dell'amore che non può bastare, né salvare. 
"L'amore rende la vita irrinunciabile".
Non suo figlio. Ildegarda può sopportare perdite, tradimenti, sconfitte morali ma non di perdere suo figlio. Per questo nello sconforto più folle crede di poter stringere un patto empio col Dio che governa il mondo: offrire la sua vita in cambio di quella di Tommaso. E quando lo saprà salvo non si stupirà affatto di scoprire che è lei ad avere nel corpo un male che non lascia speranze. 
Ildegarda dovrà prepararsi a lasciare gli affetti più cari, perdonare e perdonarsi, sarà finalmente capace di lasciar fluire le proprie emozioni anche di rabbia e continuerà a cercare l'origine della propria fede fino a farsene scudo perché "la fede è questo. Non un sapere, è una promessa fatta da chi può promettere perché ha già mantenuto infinite promesse".
Ildegarda vivrà un'ultima stagione felice con il suo Dio nel cuore e i suoi amori terreni accanto: "ti amo come si ama la vita quando ci viene restituita, al di là di ogni speranza".

Una scrittura dolente, struggente; una narrazione di estrema intelligenza. 
Un interrogarsi costante sulla fede, che lacera l'anima del lettore costringendolo ad un dialogo interiore faticoso e necessario. Se ne viene fuori fortificati. "L'amore non finisce... la morte non è l'ultima parola".

giovedì 2 maggio 2013

"Ogni istante di me e di te" di Alex Capus

Normandia: primavera del 1918.
Léon e Louise, giovani e spensierati a dispetto della guerra in corso, sfuggono agli impegni di lavoro per trascorrere una giornata al mare: sguardi persi all’orizzonte, una zuppa di mare cotta sulla sabbia, un riparo approssimato per la notte, e l’avventatezza di una sfida che ha un solo nome: amore.
Sulla strada di casa, l’impensabile: l’attacco dell’artiglieria tedesca e il destino sembra decidere per loro, separandoli, per sempre.
Léon, ferito, costretto a una lunga degenza. Louise, morta.
Ma è davvero così?
Chi è la donna che dieci anni dopo Léon crede di riconoscere a Parigi in una stazione del metrò?
La vita per intanto ha riservato a Léon nuove possibilità: un lavoro nella police judiciare, una moglie devota Yvonne e dei figli.
Eppure a dispetto di tutto sembra impossibile cancellare il passato.
Léon e le donne.. “una al suo fianco e l’altra nella testa”.
Sapere è necessario, e così vivere, riempire il tempo sospeso di quel volto perduto.
Yvonne lo sa, lo sente, deve permettere al marito di confrontarsi con il passato e scegliere. Così a Léon e Louise è dato di ritrovarsi, amarsi intensamente una notte sola, per poi lasciarsi ancora.
Léon deve onorare i propri impegni: il lavoro, la famiglia; rispettare sua moglie, lasciando che la vita, semplicemente, scorra, giorno dopo giorno, anno dopo anno. Così pure Louise: “..arriva un momento in cui si fa un bel respiro e si lascia perdere, e da lì in poi si vive per se stessi e si ritrova la serenità”.
Pur vicini, vicinissimi, Léon e Louise non si cercheranno più salvo cedere all’imprevisto inatteso di un nuovo conflitto mondiale. Con l’arrivo dei tedeschi a Parigi per Louise si fa improcrastinabile la fuga, lei dattilografa alla Banque de France dovrà scortare con alcuni colleghi il denaro della banca in un posto sperduto e sicuro in Africa, ma non smetterà di preoccuparsi di Léon e della sua famiglia.
Allo stesso tempo Léon non potrà che aspettare e intanto, resistere, a suo modo.
Le Gall… sono sempre i migliori a essere disobbedienti. E’ la disobbedienza che distingue le persone eccezionali da quelle comuni”.
Grazie alla straordinaria determinazione di Yvonne decisa a preservare ad ogni costo la sua famiglia, Léon potrà combattere a suo modo gli invasori aiutando i più bisognosi, gli ebrei in fuga, i partigiani. Così fino alla fine della guerra.
Sopravvissuti. Alla guerra, ai soprusi, ad anni di patimenti, lontananza, rinunce.
Sopravvissuti e per questo ancora più legati, Léon e Louise saranno liberi di vivere il loro amore solo dopo la morte di Yvonne, rispettosi fino all’ultimo di quel dono prezioso che si è dimostrato il loro amore.

A dispetto delle buone intenzioni la storia imbastita da Capus è inconsistente. I personaggi strappati alle ombre dell’anonimato da personalità appena accennate e stramberie personali non aggiungono nulla ad una narrazione piatta e per nulla coinvolgente.
Più che dell’amore di Léon e Louise, si parla di Léon e della sua famiglia.
Se l’autore vuol far passare l’idea che il vero amore resiste a tutto, alla morte stessa, siamo proprio fuori strada. Non si parla di sentimenti in questo libro, sono loro i veri assenti. Mancano proprio le parole d’amore. Arriva solo una freddezza, una compostezza che gela il lettore, desideroso solo che la storia finisca, e presto.